Lo chiamavano tutti Ulvio, parenti e amici, ma anche il fruttivendolo e la giornalaia.
Quelle rare volte in cui gli capitava di essere chiamato per nome – Gianluca
Secomanni – si stupiva di quanto fosse bello il nome di quel bambino, che era
proprio lui. Non gli dispiaceva infatti essere chiamato Luca o Gianlu, d’altronde era
contento di portare quasi lo stesso nome di uno dei 4 Evangelisti, che era stato un
medico e anche artista nato nella lontana Siria di 1000 anni fa. E che proprio a San
Luca fosse dedicato il santuario sui colli di Bologna. Così gli raccontava la zia Olly,
fiera di aver suggerito il nome alla sorella – la sua mamma, che ciononostante
continuava a chiamarlo Ulvio.
“Zia perché mi chiami Ulvio, se ti piace tanto il mio nome?”
A tutti verrebbe questa domanda, no? A Ulvio no, non perché non fosse intelligente
abbastanza, ma perché si era abituato a sentirsi chiamare così, i bambini si
abituano in fretta, dicono. Ulvio era quel bambino che giocava a basket, che
sognava la playstation, che si dilettava con i giochi di prestigio, che andava a
scuola con l’entusiasmo di un bradipo. Ogni tanto, però, senza che Ulvio lo
sapesse, si sentiva Luca, quello nato il 12 dicembre. Ulvio era anche Luca durante
la lezione di storia, quando assorto nei racconti della maestra Silvia immaginava e
disegnava scene di vita reale di tantissimi anni fa. Ulvio si sentiva Luca anche
quando andava a casa di Filo e insieme a suo fratello giocavano ai cavalieri che
proteggevano tesori e avventurosi marinai che si salvavano da dinosauri marini.
Luca si sentiva così vivo in quei momenti che gli occhi gli brillavano di gioia.
Ulvio abitava in una piccola città nella provincia di Bologna, c’era spesso la nebbia
e dalla sua casa in via Coriandoli 8 riusciva a vedere San Luca e i colli solo quando
il cielo era ben terso, e da quel punto in alto a destra della finestra della cucina.
Quattro anni prima il babbo e la mamma avevano avuto il coraggio di vendere il
negozio di alimentari in paese e avevano comprato alcuni ettari di terreno coltivato
ad ulivi, proprio su quelle colline, e là passavano gran parte del loro tempo in ogni
stagione dell’anno, tornando a casa stanchi ma contenti.
Nei giorni bui d’inverno, Ulvio tornava da scuola e pranzava con la zia Olly, che
lavorando da casa come traduttrice cinese-italiano era libera di far coincidere la sua
pausa pranzo con quella del nipote. Mangiando l’adorato puré di patate con i felafel
di ceci, lo sguardo di Ulvio si perdeva proprio in quella direzione, sulle colline dei
suoi ulivi, che, in caso di nebbia, vedeva comunque con l’immaginazione.
Il giorno del suo 10° compleanno i suoi genitori gli avevano regalato un bell’orologio
da polso Swatch (come avevano loro da ragazzi) con il permesso di tornare a casa
da scuola da solo, a partire da gennaio: la zia Olly lo avrebbe guardato dalla
finestra della sala che dava su via Camangi.
Insieme a tante altre raccomandazioni che teneva in mente, Ulvio contava i giorni
affinché finissero le vacanze di Natale. “Campanella 12:30, astuccio, diario, zaino,
borraccia, mi metto il giubbotto, la berretta e la sciarpa, sono fuori alle 12:35, mi
incammino su via Strocchi, supero il forno e giro a destra in viale Polese, sto sul
marciapiede perché qui le macchine vanno forte, mi fermo al semaforo pedonale,
attendo il verde e qui attraverso, imbocco via Camangi e da lì vedo zia alla finestra.
Sono arrivato a casa in tempo, 12:45.” Ulvio ripassava il percorso a mente, lo
raccontava a Filo e alimentava così quel desiderio irresistibile di sentirsi libero,
sicuro, autonomo, degno di fiducia. Per 10 giorni Ulvio aveva ripetuto il percorso a
voce centinaia di volte, tanto che i genitori, sopraffatti dall’abbondanza del suo
entusiasmo e del pranzo di Natale con zia, gli dissero: “Senti Ulvio, oggi pomeriggio
c’è poco traffico, se vuoi prendere confidenza col percorso, puoi andare a scuola a
piedi e tornare a casa”.
Luca sprizzava così tanto di gioia che non sapeva dove mettere tutta quella
energia: prese il pallone da basket e scese le scale del palazzo palleggiando ogni 2
gradini, ma erano le 14:30 e non era permesso fare rumore a quell’ora. La zia Olly
lo rincorse e disse sottovoce “Ānjìng Luca” (安静), “fai piano Luca” in cinese. Lui
capì, le consegnò la palla e partì verso la scuola, sentendo quel misto di terrore e
meraviglia che lo accomunava ad esploratori medievali che salpano mari
sconosciuti. Ma dov’erano in quel momento Filo e suo fratello, erano a casa?
Poteva allungare di poco la strada e andarli a prendere? Non ne aveva il permesso
e temeva potesse succedergli qualcosa. Si incamminò dritto verso la scuola, col
passo svelto, alle 14:30 di un paese che si stava finalmente godendo il riposo dopo
l’eccitazione della vigilia. Ulvio ripassava a mente il percorso al contrario: “via
Camangi, viale Polese, via Strocchi, ci sono.” “Raccolgo qualche foglia di tiglio per
dire che sono arrivato agli ultimi alberi del viale e torno indietro”. Rientrando vide
l’incrocio con la via dove abitavano Filo e il fratello. Decise di allungare il giro di
quei pochi minuti, suonare il campanello, augurare Buon Natale e rientrare.
D’altronde, andando di buon passo i suoi genitori non si sarebbero accorti di niente.
Così fece, ma in casa di Filo nessuno rispose. “Saranno senz’altro a casa dei
nonni” – pensò – “chissà quanti regali, che cibo squisito, i giochi di società, i nonni,
la fortuna di poterci passare le feste insieme.”
“Ahia!”, in un attimo Ulvio si ritrovò per terra con i pantaloni strappati e un ginocchio
sbucciato e sanguinante. Non si era accorto che il marciapiede in quel punto era
dissodato a causa di una radice di un albero e lui era inciampato nella buca. Si fece
coraggio, si alzò da terra e tornò su via Camangi trascinandosi la gamba sinistra.
“Ulvio?” rispose il babbo dal citofono.
“Sono io. Papà puoi scendere?”
“Papà sono caduto. Mi aiuti a salire le scale?”
Preoccupato, Ulvio raccontò quasi tutto ai genitori e alla zia Olly.
“Se il proposito era prendere confidenza con la strada, direi che ci sei riuscito!”
Confortato dalla reazione del babbo, Ulvio mostrò le foglie rosse: “Guarda, sono
arrivato fino in fondo al viale con i tigli”.
“Buon’idea il tiglio, una tisana ci farà benissimo”, disse la zia Olly.
La mamma gli pulì la ferita e la unse con olio di oliva perché cicatrizzasse prima.
“Mamma, mi dispiace per i pantaloni buoni”.
“A me dispiace più per questo bel ginocchio: ti fa male Ulvio?”
“Non tanto, ma perché mamma mi chiamate tutti così?”
“Lo sai, no? Sei nato di corsa, non sono nemmeno arrivata a mettermi le scarpe
che sei nato proprio qui sotto questo ulivo che teniamo in vaso da quando abitiamo
qui. Era la sera del 12 dicembre, poche ore prima del giorno di Santa Lucia. Non
potevi essere Lucio, ma Gianluca sì, perché in Luca c’è la luce del giorno ma anche
l’ombra che nutre, l’ombra dell’ulivo sotto cui sei nato.
“Allora mi piace essere sia Ulvio che Luca. Buon Natale mamma”.
Livia Fagnocchi
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